L’America e la nostra sudditanza mediatica

Colin Powell esibisce le prove delle (inesistenti) armi chimiche irachene

Lo dico subito, per chi sia capitato sul mio blog per la prima volta: da poco più di un anno vivo in Russia. Dopo 8 anni vissuti in Finlandia, mi è toccato attraversare ancora il confine e andare a vivere in uno dei paesi meno liberi del pianeta, e crescere lì i miei due figli. Poverini. Ma parliamo d’altro.

Mi informo consultando i siti della BBC e RT (precedentemente noto come Russia Today) e, per quanto riguarda l’Italia, de Il Fatto Quotidiano e le registrazioni di La 7. Ed è proprio su questo canale che, rivedendo la puntata di Di Martedì del 10 gennaio, il mio animo si è sollevato ascoltando Marco Travaglio affermare il bisogno di affrancarsi dalla sudditanza dagli Stati Uniti. La mia gioia tuttavia è durata poco, perché le affermazioni che sono seguite, e che mi appresto a commentare, dimostrano come esista un altro tipo di sudditanza, meno percepibile e per questo più pervasiva, che chiamerei “sudditanza mediatica”. È fatta di “verità” accettate acriticamente, aggirando la nostra diffidenza e capacità analitica; di martellamenti di dichiarazioni che rimbalzano da una parete all’altra, in una camera dell’eco perfettamente sigillata che non concede varco ad altre, alternative e scomode, narrazioni della verità.

Entriamo nel merito. L’affermazione di Marco Travaglio secondo cui Assad sarebbe un “tagliagole che non fa certamente rimpiangere l’ISIS” è passata del tutto indisturbata, senza alcun commento da parte di alcuno degli ospiti presenti in studio, incluso Luigi di Maio, come una verità ormai assodata, che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni o argomenti a supporto. È la “verità” che ci è stata passata dalla NATO e da una miriade di testate giornalistiche e organizzazioni “umanitarie”, sempre legate alla sfera di interessi occidentale, che non hanno personale operante nel suolo siriano ma che ritrasmettono comunicati di presunti “attivisti” che sono inevitabilmente feroci oppositori di Assad, quando non addirittura ribelli islamici radicali o membri di organizzazioni terroristiche. Lo so, non mi credete. Eppure non abbiamo difficoltà a credere che Assad sia un tagliagole, che l’esercito siriano abbia sterminato 82 civili durante le fasi finali dell’attacco su Aleppo, che gli aerei della coalizione governativa bombardino intenzionalmente ospedali, scuole e mercati appositamente per colpire i civili. Senza che sia necessario portare alcuna prova a supporto di questi fatti. Senza che sia necessario chiedersi per quale oscuro motivo Assad dovrebbe volere la morte della popolazione del suo paese.

Lo scienziato statunitense Noam Chomsky lo ha spiegato già 25 anni fa, in un documentario intitolato “La fabbrica del consenso” (che trovate anche in YouTube, con sottotitoli in italiano): “Puoi ripetere solamente pensieri convenzionali. [...] Se dico che Gheddafi è un terrorista, che Khomeini è un assassino, che i Russi hanno invaso l’Afghanistan, non ho bisogno di alcuna prova. Tutti annuiscono. Ma se dico qualcosa che non rientri tra le litanie convenzionalmente rigurgitate [dai media], se dico qualcosa di leggermente imprevisto o controverso, come che le più grandi operazioni di terrorismo internazionale conosciute a tutt’oggi sono quelle pilotate de Washington, o che [...] gli Stati Uniti stanno invadendo il sud del Vietnam [...], beh, la gente si aspetterebbe – e a buon ragione! – una spiegazione [...]. Quando dici queste cose è bene avere delle prove, anzi una valanga di prove, perché sono affermazioni strabilianti. Ma non puoi farlo, se c’è il vincolo della concisione [imposto dai media].” Ovvero, chi racconta verità non allineate alla narrazione dominante ha bisogno di prove solide, e di tempo per raccontarle. Ed anche qualora queste condizioni fossero soddisfatte, resta la disparità di peso tra una voce sola e un coro di voci ad essa contrarie.

L’ironia della sorte vuole che in questo caso sia addirittura impossibile portare prove: come possiamo dimostrare che Assad non sia un tagliagole? Il massimo che si può fare è mostrare come le prove contro di lui siano deboli, facilmente alterabili, tutto qui. E pure questo può comunque avvenire soltanto dopo che queste prove siano state esibite, e non semplicemente citate. Ma in questo caso (e in molti casi analoghi) la prova è la testimonianza, sempre indiretta, delle solite organizzazioni “umanitarie” di cui tutti ci fidiamo. E a sua volta queste organizzazioni citano come prova altre persone di cui si fidano; ed è proprio in questa catena di fiducia che spesso si annida l’errore: per stabilire la verità non basta il passaparola, serve l’esibizione di prove concrete. Peccato che, in una società convinta della propria esattezza, la stessa richiesta di esibire le prove venga vista come un atto sovversivo, e chi lo commette viene definito cospirazionista o negazionista.

Veniamo all’altra affermazione di Marco Travaglio: “[nella Russia di Putin] i giornalisti scomodi di solito [...] vengono ammazzati prima”. Un’affermazione tristemente vera, ma fuorviante se non la inquadriamo nella giusta prospettiva. Per prima cosa, bisogna ricordare come, secondo i dati del CPJ (Comitato per la protezione dei giornalisti, con sede a New York) sono stati uccisi più giornalisti durante il decennio di Yeltsin, presidente amatissimo dall’occidente, che durante questi 17 anni di staffetta tra Putin e Medvedev. E negli ultimi 5 anni i numeri sono scesi drasticamente, al punto che la Russia è stata superata dall’Ucraina (pure se escludiamo i giornalisti uccisi nelle zone del conflitto), di cui però nessuno parla. In secondo luogo, i giornalisti che criticano Putin e i potenti in generale non sono quelli più vulnerabili, anzi: i più vulnerabili sono quelli che mettono i bastoni tra le ruote ai potentati locali, sia in Russia (specialmente nelle tumultuose repubbliche della Cecenia e del Dagestan) sia nel resto del mondo. I capi di stato hanno modi molto più indolore – ed efficaci – per silenziare le voci critiche, che vanno dagli editti bulgari alla semplice noncuranza. L’attenzione mediatica che segue l'omicidio di un loro oppositore è l’ultima cosa che possano desiderare. Non è un caso che la scorta ce l’abbia Roberto Saviano, che non ha mai disturbato alcun grosso politico, e non Travaglio, che invece non ha mai risparmiato critiche a tutti i nostri governanti.

Vi offro un ulteriore spunto: Abby Martin, una conduttrice di RT (rete internazionale sponsorizzata dal Cremlino, e spesso citata come esempio di propaganda russa), al termine della sua trasmissione “Breaking the Set” del 3 marzo 2014 si alzò in piedi e per un intero minuto parlò “dal suo cuore”, scagliandosi contro l’occupazione militare della Crimea operata dalla Russia. Sapete che avvenne di lei? Ebbene, nessuno all’interno della rete la attaccò, e poté condurre la sua trasmissione ancora per un altro anno, finché lei stessa decise di andarsene – per tutt'altri motivi. Nella libera America, di contro, Phil Donahue di MSNBC e Peter Arnett di NBC (due network americani), che nel 2003 si schierarono contro la guerra in Iraq, furono licenziati in tronco.

Ecco, se vogliamo liberarci dalla sudditanza nei confronti degli Stati Uniti, iniziamo da quella mediatica: chiediamo ai nostri giornalisti, iniziando da quelli indipendenti come Marco Travaglio, di trattare le notizie dall’estero con la stessa cura con cui trattano le vicende nazionali, invece che assumerle come verità accertate. Potremmo scoprirne delle belle.

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